Da Forme a Forme per il Magnola, Costa della Cerasa e Costa della Tavola.

Rientro dalla Val di Genzana e Val Majelama


Non c’è due senza tre e per la terza settimana di fila è di nuovo Velino. Il meteo reggeva ancora, non ci eravamo abituati quest’anno a tanta grazia ma incredibile da credere era di nuovo nell’aria un week end all’insegna del bel tempo. Occorreva approfittarne, sarebbe stato un peccato rimanere al palo. La lancetta spostata all’indietro, causa il ripristino dell’ora solare, toglieva ore di sole, il lungo anello che pensavamo di rimandare alla prossima stagione, che da Forme al Magnola, attraverso la Costa della Cerasa, per il Vallone della Genzana e quindi per la Majelama ritorna a Forme, era al limite della fattibilità, c’era il rischio che le ore di luce non bastassero, ma si poteva ancora fare, una frontale nello zaino e che vuoi che sia! Beh, non ci abbiamo pensato molto, le frontali sono rimaste a casa naturalmente, dimenticate in chissà quale cassetto, l’escursione si è fatta, conclusa sfiorando il ritorno notturno, meravigliosa come la giornata luminosissima e la limpidezza dell’aria che permetteva di spaziare con lo sguardo ovunque. Qualche volta per indugiare si finisce per rinunciare e come si dice il non averlo fatto ci ha premiato. E’ il racconto di una giornata di luce, mite, di montagne enormi e meravigliose, di panorami fino all’infinito, di gratitudine per questa maledetta passione per l’aria aperta e per il camminare in montagna. Ore 8 siamo pronti sotto le pendici del Peschio Rovicino, oltre Forme, all’attacco dei sentieri 8 e 9; come sempre sulla stradina è un susseguirsi di arrivi, al parcheggio di preparativi, per strada di saluti, in città non succede mai, in montagna se non ti fai un cenno ci stai male; scaglionati partono diversi gruppi, io e Marina siamo i soli ad arrampicarci sulle fitte svolte del Peschio. Non si vede il sentiero che sale, sembra impossibile dal basso inoltrarsi con comodo su quelle rupi, invece c’è ed è anche ben tracciato, una scala quasi verticale, tre passi e viri continuamente, ripeti l’azione un centinaio di volte nei primi venti minuti, quelli che ti bastano per sollevarti di quasi duecento metri, per ritrovarti in un attimo esattamente sulla verticale del parcheggio; le macchine piccole piccole, quei duecento metri saliti ti bastano per alzare lo sguardo fino ai Simbruini, fino alla piana di Avezzano. I primi 40 minuti sono una salita costante, verticale, senza soste se non quelle che ti prendi per apprezzare gli orizzonti che si fanno sempre più ampi. Poi il sentiero appoggia, sembra dirigersi verso gli speroni del Peschio Rovicino quando inizia a traversare verso Sud-Est; un lungo traverso, un sentiero ben tracciato tra i pratoni scoscesi sul bordo del versante che solo pochi metri più in là inizia la sua verticale corsa verso il basso. Attraversa sotto costoni rocciosi, fila diritto verso la stretta valle che abbiamo di fronte, quasi una forra, la Valle della Sentina, ci si infila dentro, dove sembra non esserci passaggio il sentiero la attraversa e inizia con altre strettissime svolte a risalirla, nel buio della valle dove forse il sole arriva solo nelle ore centrali della giornata, attraverso placidi tratti di sparuti faggi, sale e sale fino a raggiungere intorno quota 1750, dei vasti pratoni ormai “arrugginiti” dalla stagione che avanza. Il sentiero e i segnavia a terra, in questo punto non seguono la traccia riportata sulla carta e che sembrerebbe condurre sulla cresta al limitar della Majelama, continuano seguendo la linea del vallone. Quando le pendenze si affievoliscono e le praterie si fanno ampie, sulla sella, in fondo, inizia ad intravedersi la grossa e lunga lingua di cresta della Costa Stellata, e al centro dell’ampia sella un palo con delle indicazioni, il sentiero appena tracciato che stiamo seguendo si dirige lì. Una linea appena visibile che taglia in diagonale verso Sud l’alta dorsale erbosa che abbiamo davanti deve essere inequivocabilmente il sentiero che porta al Sentinella, converge sulla sella, e proprio sul palo con le indicazioni. Non arriviamo sul bordo della sella, prendiamo il sentiero che taglia il pendio e che permette di salire senza affanno fino ai 1900 metri dell’ampia dorsale che poi lentamente salirà al Sentinella. E’ altra la cosa da qui la vista sulla Cimata di Fossa Cavalli, sul Cafornia e sulla testa della valle del Bicchero, è un massiccio imponente; sarà la costante che ci accompagnerà fino al Magnola. La montagna ripida, ruvida, solcata da strette valli è un ricordo lontano; la dorsale sale lenta , la montagna è ora una infinita tonda cupola dove si alternano vallette secondarie e piccole dorsali, tutte che convergono verso un unico punto che si confonde oltre le tonde linee di quella che sembra una cima senza vetta. Si sale lentamente, senza affanno, continuamente ci si volta verso quel monumento naturale che è il massiccio centrale del Velino e quella profonda ampia spaccatura della Valle del Bicchero che lo profana. La Cimata di Fossa Cavalli da qui assume tutta un’altra dignità, non è più la vetta secondaria della montagna madre, quella cresta che si diparte dal complesso centrale e che finisce, dopo un breve tratto di cresta sottile in una ampia pagina erbosa; dalla dorsale che sale al Sentinella è un possente sperone roccioso, ripido, che cade precipitando sulla Majelama verso Est, una sottilissima cresta tagliata di netto (ricordo di averla superata in inverno, la più sottile e accuminata cresta mai superata), ed una ampia e lunga pagina erbosa, concava, che scivola via verso il fianco Sud del Cafornia. Secondaria quanto si vuole questa Cimata di Fossa Cavalli, ma davvero una montagna per niente anonima che si distingue tra le tante. Mi sa che occorrerà presto tornare a fargli visita un po’ più da vicino. Il Sentinella , che stiamo salendo è invece una di quelle montagne che sembrano non finire mai, l’orizzonte verso la cima rimane sempre lo stesso, la montagna sembra scivolarti sotto e non mutare mai. Fin tanto che tra le rocce disseminate su terreno spunta la linea geometrica del tetto dell’Ex rifugio Panei, oggi diventato rifugio Magrini. E’ la vetta, meglio dire la cima di questa montagna che non ha una significativa sporgenza, sarà per questo e per la vicinanza dal Magnola che sulla nuova lista del Club 2000 verrà degradata a 2000 non ufficiale. Però che vista porca paletta!!!! Complice un’aria particolarmente “sottile” , che colora di azzurro le tante creste che si susseguono ovunque all’infinito, gli occhi vengono riempiti di tutto. Di colori, di montagne che riconosciamo, dei cavalli al pascolo che proiettano la loro forma nel cielo azzurro , delle lingue di neve che qua e là sopravvivono ancora dalla sfuriata di metà Ottobre, dell’immobilità dell’orizzonte che si perde nell’infinito. Il rifugio rimane diroccato e all’interno pericolosamente cadente, fuori al riparo dal sottile filo d’aria fredda che viene da Est offre il riparo perfetto per fermarsi quindici minuti, quelli necessari per abbandonarsi al silenzio e alle meraviglie di quel pezzo di mondo. Il Magnola è a vista, oltre quei pratoni e piccoli avvallamenti che salgono verso Sud-Est, le poche rocce che si vedono a meno di un chilometro sono già il segno della sua cresta sommitale. Mentre saliamo veniamo colti di sorpresa quando una lunga striscia bianca si manifesta all’orizzonte. Tutta la lunga cresta del Gran Sasso è ormai in splendida forma invernale; il bianco compatto e luminoso spicca e contrasta col pervinca del cielo, anche i dettagli sono visibili tanto è pulito l’orizzonte. Una immagine che elettrizza, strega, un buon viatico davvero per la stagione invernale che si avvicina. Durerà tutta quella neve? Poco dopo, una volta in cresta del Magnola è verso Sud-Est, la Majella che ci sorprende per lo stesso motivo, in splendida forma invernale le sue rave si distinguono come fossero a due passi. Arriviamo in cresta al Magnola centocinquanta metri prima della croce di vetta, quella croce invisibile finche’ non ci arrivi vicino, posta su uno sperone sotto la vera cima, in bilico sul ciglio di cresta e lo strapiombo della valle glaciale sotto. Bella la vista sui piani delle Rocche e sul Sirente, appena appena “sporco” di neve alla sua sommità. Mamma mia quanto è grosso e lungo il Sirente, non ci si abitua mai alle sue dimensioni. Ci riportiamo sotto vento ad Ovest della cresta, il sole ormai a picco ci scalda, ci lasciamo andare ad un momento di pigrizia. Il Velino sempre davanti, imponente e ruvido, mentre il Sentinella non appariva davvero una montagna ma piuttosto un insieme di prati, una ampia cupola che lentamente degradava verso Ovest e verso Sud. Lontani i Simbruini boscosi, la sagoma del Tarino, del Viglio, come sottofondo solo il leggero sibilo del vento, nessuna parola a rompere la magia di quel momento. Non sapevo ancora quale percorso avremmo compiuto per il ritorno, c’erano due opzioni in ballo, ed è stata Marina stessa a rompere gli indugi una volta che ci trovavamo in discesa sulla cresta verso il Vado di Roscia Grande. Lì avevo posto il momento della scelta, potevamo scendere dentro la Val Genzana per chiudere l’anello e ritornare alla macchina oppure avremmo potuto allungare sulla Costa Cerasa, su quella della Tavola e scendere all’interno della Val Genzana dal Vado di Castellaneta. Marina aveva già scelto, il Velino si era impossessato di lei, la caricava ad ogni passo e forse complice anche una delle giornate più belle mai vissute in montagna ha tirato diritta verso la Costa delle Cerasa, incurante di ulteriore dislivello e di dover allungare di buoni cinque chilometri il percorso. La Costa della Cerasa è un susseguirsi di tre punte che si alzano gradualmente, tutte sul ciglio di una cresta di un versante che scende boscoso verso i Piani di Pezza. Come ogni particolare della giornata anche la vista sui Piani era particolarmente bella e dettagliata, tutta la Costa della Cerasa fino a quella della Tavola dominava i Piani, era come percorrerli dall’alto. La solite auto parcheggiate al limitare di Capo di Pezza, la dorsale opposta che da Punta dell’Azzocchio corre fino a Monte Rotondo è un trampolino dello sguardo, una sorta di cornice alla cresta più blasonata e lontana del Gran Sasso, più bianca che mai sotto i raggi del sole ora a picco. Superiamo i dislivelli delle prime due punte della Costa della Cerasa di slancio, oltre la seconda il panorama di allarga e allunga, sembra lì dietro il Puzzillo la cui silhouette da qui sembra ancora più tozza. Ma è il Corno Grande che catalizza lo sguardo, enorme nonostante la lontananza, e la piramide dell’Intermesoli, la sagoma del Corvo, e … ci sono proprio tutti, è il paradiso dei montanari questo posto in questa giornata davvero unica. Più a nord la Laga è meno imbiancata e ancora un po’ più in là c’è il nostro monte, il Vettore, inconfondibile sagoma di casa. Emoziona quasi riconoscerlo da così lontano, è quasi privo di neve ma ci da un senso di intimo, di casa, di esaltazione, il Velino non si discute ma i Sibillini, anche da lontano … sono la nostra casa. Sulla Costa della Tavola, iniziamo a guardare l’orologio, le ombre di Costa Stellata si allungano velocemente dentro la valle, i colori si scaldano velocemente segno che il sole si sta abbassando, forse siamo con qualche decina di minuti di ritardo sulla tabella di marcia, ci ricordiamo che le frontali sono sepolte in qualche cassetto di casa, non ci possiamo godere oltre il momento anche se con questi colori è davvero quello perfetto da vivere. Lentamente ci rendiamo conto che non è più una distesa di montagne quella che stiamo guardando, che quella lontana non è più la nostra montagna di casa, quello che abbiamo negli occhi è un quadro di un pittore fiammingo, caldo di colori e di ombre lunghe, pieno di un blu profondo. Che peccato doversene andare. Fino al vado di Castellaneta è una facile tonda cresta che scende regolare, poi al Vado, ormai quasi in ombra ci infiliamo dentro la Valle Genzana, ampia e per metà in ombra, una conca che scende regolare, un manto erboso soffice e il sempre presente stazzo d’altura; il sentiero è molto evidente all’inizio, poi quando raggiunge delle doline erbose si perde e occorre fare attenzione a degli sparuti segnavia; anche non li si trovasse sarebbe impossibile sbagliare percorso, si punta verso il basso e si arriva. Si arriva al punto in cui la Val Genzana di restringe tra le ripide pareti del Sentinella e la fine della lingua di Costa Setellata. Qui la Val Genzana cambia faccia, dalla placida larga valle, con leggero e costante pendio diventa uno stretto imbuto che si restringe via via che ci si inoltra e si avanza verso il basso. Massi erratici, pietrisco franato, ghiaioni, pochi tratti di sentiero facile, molti i tratti ricavati sul pietrisco franato e ancora non ben tracciati sintomo di un terreno in continuo mutamento. Le pareti intorno si stringono sulla valle e ancora è niente, perché continuando più giù, quando le buia Valle Majelama ormai si inizia ad intuire anche la pendenza si fa ripidissima. Il fondo non muta, pietrisco e pendenza sono una miscela micidiale ed ogni passo è un miracolo se si rimane in piedi e non si finisce col sedere per terra. E’ questo il tratto più raccontato di questa valle, quello più selvaggio, più ripido, quello che quasi gode di una sorta di mitica fama. In tutto questo le luci ormai calde del pomeriggio di infilano di traverso e scaldano i gialli ed i rossi del bosco, scaldano le rocce che da pallide come erano convergono verso un ocra che contrasta ancor più col blu del cielo che non accenna ad attenuarsi. Rotoliamo verso il basso insieme alle roccette che trasciniamo con noi, sono pochi i tratti di respiro fino a che girando intorno alle falde della Costa Stellata la Val Genzana non inizia a confondersi con la Majelama. L’ultimo tratto è un traverso che entra ed esce da un rado e ancora verde bosco; una volta girati intorno alla Costa Stellata non si può non fermarsi un attimo di fronte a quella meraviglia che è la Majelama da qui; enorme, alta, incassata e via via che si avvicina allo sbocco si stringe sempre di più, buia sui ripidi contrafforti della Cimata di Fossa Cavalli, è illuminata sotto la cresta del Peschio Rovicino. Rocce ad alberi sembrano prendere fuoco, e ci stanno rammentando e ammonendo che ci rimane un fazzoletto di luce e, haime’, ancora quattro chilometri da percorrere prima di uscire. Non rimane che scendere veloci, il sentiero aiuta, si abbassa velocemente tra pietrisco scivoloso e piccoli tratti franati e plana all’interno della valle. Il resto è una marcia forzata, ci siamo ricordati che siamo privi di lampade frontali e per evitare brutte sorprese nell’ultimo tratto affrettiamo il passo. La giornata è stata pienissima di colpi d’occhio fantastici, ambienti diversi si sono susseguiti gli uni agli altri, in questo tratto di fondo valle che conosciamo di fresco per esserci passati un paio di settimane fa , ormai buio e senza interesse, iniziamo già a raccontarci i vari momenti vissuti; un po’ per tenerci compagnia, un po’ per cercare non far finire la giornata troppo velocemente. Non c’era più nulla da chiedere quando siamo arrivati alla machina, eravamo ancora sulla carrareccia quando due auto puntano i fari verso Forme. Siamo gli ultimi ed è quasi buio. Con le ultime luci di un tramonto bellissimo ci rassettiamo; nei vicoli di Forme è già notte, davvero a questo stupendo anello non si poteva davvero chiedere di più.